TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE – ROMA

Solitudine DOC – Narrativa & Psicologia

Solitudine DOC – Narrativa & Psicologia

Il racconto ha come protagonista un giovane che soffre di disturbo ossessivo compulsivo con ossessioni che mettono in dubbio la propria intelligenza.

 

di Giampaolo Salvatore

Il dottor Oreste Nobile aprì la finestra. L’aria era umida, carica di elettricità e imminenza. Dalla strada arrivavano a intervalli irregolari i peti striduli dei motorini truccati. Mancavano ancora dieci minuti alla prossima visita. Un nuovo paziente. Al telefono gli era sembrato giovane, molto calmo, educatissimo. Solo qualche brusca accelerazione nella seconda metà delle frasi, come per essere sicuro di riuscire a terminarle prima di essere interrotto. Si chiamava Marco.

Dieci minuti. Quando c’era una pausa del genere tra le consecutive incursioni nelle esistenze altrui, Oreste Nobile faceva il suo solito esperimento. Tallonava un umore differente dal consueto stato di sospensione, di attesa, in cui cuoceva a bagnomaria per la maggior parte della giornata. Metteva il naso fuori da quella condizione dell’animo che aveva eletto a dimora fissa. Diceva a se stesso che c’era un certo gusto nell’indurre, guidare, accendere o spegnere a piacimento i propri stati mentali. In realtà, lo faceva per stimolare i riflessi del suo apparato affettivo, per controllarne l’efficienza. Per verificare che all’interno del suo involucro di carne, ossa e sangue fosse ancora presente un dispositivo emotivo. Avrebbe capito solo nella vecchiaia che faceva questo esperimento per assicurarsi di essere ancora vivo.
E tra tutti gli stati mentali tra cui scegliere, il suo preferito era la nostalgia.

Quando aveva poco tempo, con la nostalgia andava bene anche una sveltina. Bastava cercare in rete il titolo di un classico o di un tormentone degli anni ’70 o ’80. Già sull’attacco di Hotel California o de L’estate sta finendo avvertiva il prurito interno inconfondibile dell’imminente eiaculazione di nostalgia. Che non appena avvenuta, si coagulava quasi subito in una specie di indignazione. Lì, di immagini mentali, di ricordi – magari i suoi sedici anni, quella spiaggia in una sera di fine Agosto, di quelle in cui capisci che ormai ci vuole la felpa, il viso di lei, la disperazione totale per la sua partenza l’indomani – manco a parlarne. Non si spiegava come mai con lui i ricordi fossero così fisici, ostili, spietati. Perché non riuscisse a vederli come immagini proiettate dietro agli occhi, attenuate come sogni, immateriali. Perché avessero invece quella consistenza solida, contundente, che impattava ripetutamente sulle pareti interne dello stomaco producendo quella vibrazione sorda somigliante ai prodromi di un’ulcera.

Stavolta se la prese più comoda. Anche se aveva solo dieci minuti, decise che qualche preliminare con la nostalgia potesse starci. Si avvicinò alla sua nostalgia con un passo silenziosissimo, come un bambino che attraversa il corridoio in punta di piedi per non svegliare un genitore sempre arrabbiato. Non cercò una canzone. Digitò su google la parola pacman, scegliendo pacman tra pacman, pucman, packman e puckman, perché su questo sono sempre esistite scuole di pensiero diverse. E mentre digitava diceva a se stesso sapendo di mentire (questo faceva parte dei preliminari) che era solo per fare una partita.

Durante lo stacchetto musicale iniziale – di cui la bocca itterica di nome Pac-Man rimane immobile ad aspettare rispettosamente la fine – Oreste sorrise. Ma appena i fantasmini colorati si gettarono all’inseguimento di Pac-Man, in Oreste si riaccesero sinapsi dormienti. Gli schemi per mangiare più puntini possibili prima di raggiungere e ingollare la pillola che trasforma i predatori in prede. Completò il primo quadro con qualche esitazione.

Un paio di volte rischiò seriamente che il fantasmino rosso placcasse Pac-Man, ma lo salvò il movimento – identico a quando la sua mano lo compiva a dodici anni – di mangiare la pillola e cambiare istantaneamente direzione per inghiottire in un attimo l’inseguitore.
Accadde alla fine del secondo quadro, proprio durante il siparietto che Pac-Man e i fantasmi fanno per complimentarsi col giocatore e avvertirlo implicitamente che da quel momento in poi si farà sul serio, che sarà tutto più veloce e spietato. Si fece annunciare dal desiderio improvviso che la vita reale, magari con una telefonata, lo distogliesse dalla vita mentale, nella quale qualcosa stava prendendo una brutta piega.
Poi si manifestò.

Qualcosa di simile a quello che succede a un tossico quando si inietta un’overdose. Si era sparato nelle vene nostalgia tagliata con roba dalla chimica letale. Rimasugli di dolore senza nome. La sua mente stava usando la nostalgia come la punta metallica di quei martelli appesi ai finestrini dei treni sopra la scritta “Da usare solo in caso di emergenza”. E quella punta stava intaccando un locus minoris resistentiae preciso. Un punto di rottura potenziale.
Si rese conto che stava invidiando il mondo incosciente di pacman. I fantasmini che uccidono Pac-Man quasi controvoglia, come se in fondo un po’ gli dispiacesse. Pac-Man stesso, con il suo unico scopo: divorare tutti i puntini del quadro digerendoli all’istante, senza mai defecare come sarebbe logico, né dare mai l’impressione di averne bisogno. E ricominciare daccapo. Invidiava quella forma elementare di progressione nell’uguale. A ogni nuovo quadro il mondo di pacman, semplicemente, accelera un po’. E il destino di Pac-Man è segnato perché lui a ogni quadro accelera un po’ meno, impercettibilmente, di quanto accelerino i fantasmini. Però almeno – questo Oreste invidiava più di tutto – quella di pacman era la vita senza passato e senza futuro.
Senza quell’assurda presa per il culo che è il tempo.

Quando sentì il suono del citofono chiuse istantaneamente il display del portatile.
Nel tempo aveva imparato che il suono del citofono dice molto del mondo interno di una persona. Esistevano due estremi della psiche citofonante. Da un lato gli individui incapaci di registrare la presenza di altre anime dentro i corpi in movimento attorno a loro, convinti che l’unica interiorità possibile fosse la propria, e che la vita fosse un romanzo di cui essi erano i narratori onnipotenti e onniscienti. Questi suonavano forte, ripetutamente, facendoti saltare in aria.

All’estremo opposto, quelli che stavano al mondo sentendosi personaggi inanimati a cui qualche narratore onnipotente regala la vita, quelli in cui qualsiasi guizzo di vita autonoma, qualsiasi momentanea intuizione del fatto che sia possibile stare al mondo senza permesso, generava un’ansia incontenibile. Questi suonavano solo mezza volta, senza premere il pulsante fino in fondo, senza convinzione. Tanto che rischiavi di non sentire il citofono se eri sovrappensiero o se dalla strada arrivava un po’ di rumore.

Stavolta però Oreste sentì un suono diverso. Il prototipo del suono del citofono. Il suono del citofono che meglio rende l’essenza del suono del citofono. Durata, intensità, frequenza di stimolazione della catena di ossicini dell’orecchio interno di chi riceve la citofonata. Tutto perfettamente misurato. Oreste pensò che chi suonava doveva avere per forza studiato, pensato come bussare nel modo più canonico possibile al citofono.

Sui vent’anni. Magro, non alto, non basso. Gli occhi nerissimi. I muscoli della mandibola incapaci di quiete. Indossava pantaloni di velluto a coste larghe e una giacca di tweed irlandese di colore indefinibile.

«La ringrazio per avermi ricevuto così presto.», fece, mentre si accomodava su una delle tre poltroncine Nantucket che Oreste aveva appena acquistato a Ikea. Marco aveva la stessa espressione che probabilmente avrebbe avuto stampata sul viso durante un colloquio di lavoro. Il livello di contrazione di ogni singolo muscolo facciale tarato al millimetro. Una voce perfettamente modulata, ma senza prosodia. Il timbro dell’adulto, ma l’intonazione distaccata del bambino intelligente che recita per l’ultima volta la poesia di Natale davanti a genitori che meditano separazioni e a parenti dilaniati dalla noia.

«Si figuri. È la prima volta che vede uno specialista?»
«No. La prima in assoluto è stata quando i miei genitori mi hanno portato da piccolo da un neurologo. Se ricordo bene fu perché secondo loro avevo una difficoltà nell’apprendimento. Il dottore però non riscontrò anomalie di sorta.»
«Quanti anni aveva più o meno?»
«Otto.»
«Ok. C’è stato qualche altro intervento da allora?
«Sì, una psicoterapia terminata pochi mesi fa.»
«Quanto è durata?»
«Circa un anno e mezzo.»
«In questo caso di chi è stata la decisione di iniziarla?»
«Mia, ma fortemente incoraggiata dai miei dopo quasi un anno che lottavo contro il mio disturbo ossessivo compulsivo.»
«Posso chiederle come mai è terminata?»
«Mah, col dottore ci siamo lasciati bene. Gli ho detto che volevo provare un approccio diverso perché mi sembrava che nonostante i progressi innegabili fossimo in stallo. Lui ha accettato di buon grado. Ha ammesso onestamente che avevo ragione e mi ha incoraggiato. È proprio lui che mi ha indirizzato a lei.»

La testa di Oreste ebbe un leggero sussulto, gli occhi si socchiusero per un attimo. L’abbozzo del gesto che facciamo quando qualcuno fa finta di darci uno schiaffo. «Quando parla di progressi a cosa si riferisce esattamente?»
«Beh, ecco. All’inizio avevo ossessioni di contagio e di controllo, che sono sparite completamente, anche prima che conoscessi il dottore. Ora le mie ossessioni riguardano la mia capacità intellettuale. Quando leggo qualsiasi cosa che richieda un impegno intellettuale iniziano a venirmi mille dubbi. Il dottore mi ha fatto capire molto bene come funziona il mio disturbo ossessivo compulsivo. È tutto su questo diagramma.»

Tirò fuori dal taschino interno della giacca un foglio ripiegato in quattro e lo aprì mostrandolo a Oreste. Una serie di rettangoli disegnati con una penna nera, collegati da frecce che davano il senso immediato di una successione logica, ovvia. All’interno di ciascun rettangolo c’erano frasi piuttosto articolate. In alcuni rettangoli una sola parola a caratteri cubitali. Lo sguardo di Oreste, appena gli fu messo il foglio davanti, fu catturato dalla parola ANSIA scritta con un pennarello rosso.

Mentre indicava con una penna i collegamenti tra i rettangoli, il tono di Marco diventò professorale, monocorde:
«Come vede il diagramma mostra come appena incontro una difficoltà nella lettura, un passaggio di non immediata comprensione, vengo assalito da pensieri automatici negativi come ‘non sono in grado di capire perché non sono abbastanza intelligente’, ‘se non sono abbastanza intelligente non raggiungerò mai i miei obiettivi e fallirò. Poi mi dico anche ’se mi viene il dubbio di non essere intelligente, evidentemente non lo sono’. La mia ansia è una reazione a questi pensieri. Ed è per tentare di ridurre l’ansia, zittire i pensieri e contrastare l’idea di non essere abbastanza intelligente che rileggo il passaggio che non ho capito la prima volta. Il problema è che l’ansia stessa distoglie l’attenzione dal contenuto del testo. Lo rileggo mentre sono immerso in uno stato di paura, e mentre altri pensieri mi dicono ‘e se non capisco nemmeno questa volta? Vorrebbe dire davvero che non sono intelligente!’. Quindi è ovvio che io non capisca. Mi ritrovo a rileggere dieci volte la frase, e finisco per sentirmi definitivamente scemo per quello che sto facendo, anche per il fatto stesso di leggere ripetutamente la frase. Per questo chiudo il libro, scoraggiandomi definitivamente. Prima è successo con i libri universitari. Tanto che dopo i primi due esami che ho superato a stento, non sono riuscito a darne altri. Per un breve periodo i libri che sceglievo per passione intellettuale mi erano di conforto. Poi il problema si è esteso anche a quel tipo di lettura.»

Nella mente di Oreste passò, rapidissima, l’immagine di se stesso a otto anni curvo sul tavolo della cucina a scrivere. Ricordò un pomeriggio di inverno con la pioggia che cadeva fitta, obliqua. Suo padre lo aveva preso a scuola, e poco prima, nel breve tragitto tra l’auto parcheggiata e il portone di casa, lo zainetto era caduto in una pozzanghera. I quaderni inzuppati. Oreste aveva deciso di ricopiare alla lettera cinque mesi di compiti sui quaderni di riserva che teneva sempre pronti per emergenze del genere. La scena si fermava lì. Non ricordava altro.

«L’ho ascoltata con molta attenzione, Marco. Conosce il meccanismo del sintomo con grande precisione. Complimenti. Mi ha detto che il dottore le ha insegnato delle strategie per gestire il sintomo. Mi fa capire meglio?»
«Il dottore mi ha spiegato prima di tutto quanto sia importante riconoscere il primo pensiero, quello che avvia il processo dell’ansia – ‘non sono in grado di capire perché non sono abbastanza intelligente’ – e di vederlo come il prodotto della mia mente, qualcosa che può transitare nella mente di chiunque, e semplicemente lasciarlo andare. Non assecondarlo, non vederlo come assolutamente vero. Poi mi ha insegnato una tecnica di respirazione e rilassamento che serve per portare l’attenzione sul corpo e sul momento presente, in modo da distoglierla dalla tendenza ad assecondare quel pensiero ed evitare che si attivi la catena di pensieri negativi successivi.»

Nel tono di Marco, Oreste coglieva un vago compiacimento. Se alla base della sua angoscia c’era la paura di non capire, e di scoprirsi per questo stupido, capire alla perfezione il meccanismo cognitivo che stava mandando al macero la sua vita, spiegarlo a un terapeuta, esattamente come un terapeuta l’aveva spiegato a lui, sembrava riabilitarlo agli occhi di se stesso. Oreste fu quasi tentato di dirglielo. Di dirgli qualcosa che – per quanto rivestito di garbo – sarebbe suonato in ogni caso come una provocazione insulsa. Qualcosa come curioso che lei abbia tanta paura di non capire i concetti e poi sembri così padrone nel comprendere concetti psicologici complessi. Più o meno così. Giusto per evidenziare quella contraddizione tra la vulnerabilità che chiedeva aiuto e la pedanteria che sembrava ritrattarne il bisogno. Una contraddizione che aveva già acceso la miccia dell’irritazione di Oreste, e aveva appena fatto comparire sul set della sua mente la sua risposta preferita a ogni forma di pedanteria.

La scena di Ricomincio da Tre di Massimo Troisi in cui il protagonista, Gaetano, tenta di convincere Robertino a spezzare le catene dei suoi complessi e del comportamento soffocante della madre. (Oreste aveva sempre pensato che quella scena, di una comicità inarrivabile, avesse un retrogusto amaro. Che il protagonista, Gaetano, che Massimo Troisi stesso, stessero incontrando la versione iperbolica del proprio doppio. Ciò che l’attore sarebbe diventato se il suo talento non l’avesse tratto in salvo).

La voce di Massimo Troisi penetrò nella stanza con la prepotenza di un’allucinazione, tanto che Oreste dovette contrarre sul nascere un sorriso e con esso la tendenza della lingua e della mandibola a partire per recitare la battuta che sapeva a memoria. Robè…tu devi uscire, ti devi salvare, Robè, t’hanno chiuso dint’ ‘a stu’ museo, tu devi uscire, và mmiezo’a strada, tocc ‘e femmene, va a arrubbà, fa chello che vuò tu. La battuta che terrorizza Robertino, che inizia a urlare e chiamare Mammina, mammina!!. Poi, la resa rabbiosa di Massimo Troisi. La frase che ogni essere umano dovrebbe urlare davanti allo specchio almeno una volta nella vita. Ma vafancul’ tu e mammina!!!

Individui come Marco instillavano in Oreste l’impulso a urlarla, quella frase.
Ma vafancul’ tu e il tuo dottore!!!

«Ascolti, Marco, può tornare con la mente a un momento recente in cui ha aperto un libro, qualcosa che la impegnava intellettualmente?»
«Un momento?», disse Marco, l’espressione di legno impercettibilmente deformata dal sollevamento di un sopracciglio.
«Intendo: mi porta su una scena specifica in cui le è comparso il sintomo?»
«Beh, non saprei…Sì…Qualche giorno fa stavo leggendo La grammatica trasformazionale di Chomsky. Mi appassiona molto comprendere come prende forma la capacità linguistica, e la soluzione di Chomsky mi sembra geniale. Lui si è chiesto come mai i parlanti di una lingua sono in grado di produrre e di comprendere un numero indefinito di frasi che non hanno mai udito prima o che addirittura possono non essere mai state pronunciate prima da qualcuno. E risponde mettendo in evidenza l’intrinseca creatività di noi esseri umani. Quella creatività che ci fa generare continuamente nuove frasi, anche senza averle mai sentite prima, sulla base di regole che possediamo in modo innato. Così, riuscendo a creare infinite combinazioni di parole, possiamo dire tutto.»

«Si sente molto che è un argomento che l’appassiona.»

«Mi appassiona soprattutto l’idea chomskyana che la mente contenga principi grammaticali inconsci che la guidano nella produzione del linguaggio. Mi fa pensare che abbiamo in generale dentro di noi, inconsciamente, la capacità di risolvere i problemi che la vita ci pone. Un modo del tutto istintivo, immediato e semplice di fare le cose…Eppure io non ci riesco, complico le cose. Forse ho perso questa capacità. Mi domando se esista una specie di grammatica esistenziale chomskiana che io ho perso definitivamente o forse non ho mai acquisito.»

«Ritorni a quel momento, mentre leggeva il libro. Cosa è successo?»

«Quello che succede sempre…Arrivo a un passaggio un po’ più lungo, magari leggermente complesso. Lo leggo fino in fondo. Alla fine del periodo realizzo che non ho capito bene, quindi ricomincio a leggere la frase dall’inizio. E lì comincio a chiedermi ‘come faccio a essere sicuro che sto veramente capendo il concetto che l’autore vuole esprimere? Chi me la dà la certezza che sto capendo veramente quello che l’autore vuole concettualizzare?’»

Marco fece una pausa. Riaggiustò la posizione sulla poltrona, come se volesse utilizzare al meglio il diaframma e regolare la giusta quantità di aria da emettere a ogni frase. Deglutì e continuò:

«A quel punto mi sale l’ansia. Succede sempre così.»

«In quel momento la possibilità di non aver capito bene il concetto l’ha spaventata?!»

«Sì. E dovevo capire prima possibile.»

«Doveva capire. Prima possibile. E che ha fatto?»

«Leggo e rileggo quella frase. Ma ogni volta, mentre la rileggo, penso sempre più insistentemente ‘chi ti dice che ora hai capito veramente?’. E intanto l’ansia sale, sale. Fino al punto in cui sono costretto a chiudere il libro. Quando mi prende così ho un crollo. Non riesco a uscire più di casa per paura che il problema si presenti anche con le frasi dette dalle persone con cui dialogo. Immagini se un collega di università mi chiedesse ‘andiamo a prendere un caffè?’, e mi venisse il dubbio di non aver capito il significato. Rimarrei lì come uno stupido.»

Oreste annuì lentamente. Poi disse:

«In quel momento, mentre leggeva Chomsky e si è presentato il problema, ha provato a mettere in atto le strategie del dottore?»

«Ci ho provato, ma non ci sono riuscito, anzi…Come le dicevo, solo qualche volta all’inizio ha funzionato. Il sintomo compariva, mi rilassavo, respiravo e mi calmavo. Ma dopo le prime due o tre volte è accaduta la cosa peggiore che potesse accadere. Non so come, ma usare la tecnica insegnatami dal dottore ha innescato una nuova serie di dubbi. Veramente brutti.»

La voce di Marco aveva subito un improvviso rallentamento. La frequenza diminuita di un’ottava. L’espressione del viso attraversata da una smorfia di dolore che indugiò ai lati delle labbra creando due rughe profonde, simmetriche come parentesi tonde.

«Dubbi veramente brutti? Ha cambiato espressione mentre lo diceva. Le va di raccontarmeli?»

«Io…Ecco…Metto tutta la mia attenzione sul respiro, come mi ha insegnato il dottore, e inizio a chiedermi ‘come faccio a essere certo che sto usando la tecnica più efficace per gestire il mio sintomo?’, ‘come faccio a essere certo che anche se è la tecnica più efficace io la stia usando nel modo più efficace o se sarò mai in grado di farlo?’.»

Ci fu una pausa. Una folata di vento fece vibrare leggermente i vetri della finestra che stava accanto alla poltrona di Oreste. La carezza gelida, rapida, raggiunse la sua guancia sinistra. Come ogni volta che succedeva, Oreste pensò che era arrivato il momento di cambiare quegli infissi scadenti.

«Mi dispiace. Tutto questo deve farla sentire senza vie d’uscita.»

Fu proprio in quel momento, quando sentì la sua voce dire ‘Mi dispiace’, che Oreste ricordò il seguito di quel pomeriggio di inverno in cui aveva deciso che l’unica speranza di salvezza fosse ricopiare alla lettera cinque mesi di compiti sui quaderni di riserva. Prima, la sua mano ricordò il dolore per la tensione prolungata nel calcare la penna sul foglio lentamente per non sbagliare. Poi lui si rivide desistere dopo sei ore di lavoro ininterrotto e scoppiare a piangere. Rivide sua madre che era corsa ad abbracciarlo. Gli aveva detto che poteva davvero bastare così, che avrebbe parlato lei con la maestra, risolto tutto, che ora Oreste doveva solo guardarsi un bel cartone. Rivide suo padre portargli la pizza, come faceva sempre quando voleva consolarlo.

E in quell’istante di coscienza esplosa capì anche il perché. Perché quella pizza era la più buona che avesse mangiato in vita sua. E capì il perché di tutto quel bisogno di provare nostalgia, magari passando attraverso l’invidia per Pac-Man.
Indursi la nostalgia era il tentativo di arrivare, per approssimazioni ripetute, al sapore di quella pizza.
Era tutto così semplice. Autoevidente. E ora era vitale che anche Marco capisse.

«Ascolti, Marco. Torniamo per un attimo alla scena in cui lei teme di non capire il testo di Chomsky. Vuole?»
«Va bene.»
«Lei chiude il libro, come mi ha detto. Ora immagini di chiudere il libro con la certezza di non capire. Forse perché è stanco e non ha la solita prontezza nel cogliere i concetti, o forse perché in fondo Chomsky oggi non le piace poi tanto, e leggerlo non è molto diverso da studiare un testo universitario, non so. Fatto sta che sta rinunciando perché oggi proprio i concetti non le entrano in testa. Può provare a immaginarlo veramente?»
Marco sorrise strizzò per un attimo gli occhi come per mettere a fuoco.

«Ok, sì. Sto immaginando.»

«Bene Marco. Ora, che ne pensa di Marco che realizza che non capisce con la prontezza che vorrebbe, che almeno per ora sta rinunciando perché i concetti non gli entrano in testa?»
La fronte di Marco si corrugò.

«Non so…un cretino.»
Appena un fremito nella voce.

«Chi la sta chiamando cretino, Marco?»

«Come dice?»

«Le sto chiedendo, dove è andata un attimo fa la sua mente? Chi la sta chiamando cretino?»

«Mio padre, ma non me la sento di parlarne ora.» disse Marco aprendo gli occhi e abbassando lo sguardo.

«Certo, non si preoccupi. Ci sarà tempo. Ha ricordato qualcosa. Ce ne occuperemo con calma, ma…»

«È strano» – interruppe Marco, lo sguardo fisso sulla mano destra di Oreste – «anche col dottore eravamo arrivati a parlare di mio padre, del fatto che era molto severo ed esigente sul mio rendimento scolastico. Gli avevo anche raccontato che qualche volta mi chiamava cretino se facevo qualche errore. Ma non mi era mai tornata in mente quella scena…»

«Sì. Ha rievocato un ricordo e l’ha rivissuto in prima persona. Quando se la sentirà…»

Marco lo interruppe:

 

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