TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE – ROMA

Curo con il mio viso ma non lo conosco: l’integrazione tra Self Mirroring Therapy e Terapia Metacognitiva Interpersonale nella disciplina interiore del Terapeuta

Curo con il mio viso ma non lo conosco: l’integrazione tra Self Mirroring Therapy e Terapia Metacognitiva Interpersonale nella disciplina interiore del Terapeuta

Curo con il mio viso ma non lo conosco: l’integrazione tra Self Mirroring Therapy e Terapia Metacognitiva Interpersonale nella disciplina interiore del Terapeuta

Il terapeuta può utilizzare la Self Mirroring Therapy per individuare i propri Cicli Interpersonali Disfunzonali. Conoscendo e sperimentando degli aspetti nuovi e sereni di sé, interromperà più velocemente tali Cicli e non se ne farà coinvolgere.

La tecnologia e la formazione sulla Self Mirroring Therapy vengono in aiuto del terapeuta nel raggiungere una disciplina interiore, attraverso una webcam verso di sé, oltre a quella rivolta abitualmente verso il paziente, per ottenere un filmato della seduta completa in una sorta di “intervista doppia” in cui i Cicli Interpersonali Disfunzionali sono lì, nero su bianco, anzi pixel su pixel.

di Michela Alibrandi

Ciao Michela, che occhiaie stamattina! Sembri un panda! Ti senti bene?”. Esordisce cosi la prima paziente di un faticoso venerdì mattina. Qualche ora dopo, ripensando all’episodio, mi dico scolasticamente “Bene! Si è concessa di scherzare con me senza paura di offendermi, c’è ancora un po’ del suo accudimento ma non è così rilevante, tutto ok”.

Se mi focalizzo però sulle mie sensazioni, l’ ansia sottile con cui in quelle ore ho sbirciato la mia immagine riflessa, il pensiero ricorrente del 40° compleanno in arrivo, l’angoscia delle recenti notti insonni in allattamento, riconosco il timore sotteso, familiare, di non essere adeguata, risvegliato da quella frase.

Tutto ok? Per niente! Sul momento però non me ne sono accorta e sicuramente sono apparse sul mio viso espressioni inconsapevoli di ansia e irritazione che la paziente può avere colto, in maniera altrettanto inconsapevole.

Come funzionano gli Schemi Interpersonali

Queste dinamiche, in Terapia Metacognitiva Interpersonale, costituiscono materiale importantissimo di conoscenza e cura del paziente (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013)

Ogni essere umano viaggia nel mondo con il suo kit di Schemi Interpersonali, appresi e modificabili nell’arco dell’intera vita, che originano da desideri sani e universali (“wish”), come amare ed essere amato, appartenere al gruppo e cooperare, formare legami sentimentali e sessuali stabili, competere, esplorare ed essere autonomi.

A partire da queste motivazioni, e dalle risposte dell’altro ai propri desideri, la persona si approccia alla realtà, fa previsioni, interpreta e filtra le informazioni, ragiona sui propri comportamenti e le conseguenze ( “procedura se…allora” e “risposta dell’altro”: per esempio “se chiedo aiuto allora l’altro si arrabbierà” ). La risposta dell’altro (immaginata o reale ma interpretata alla luce dello schema), induce nella persona una strategia di coping (“risposta del sé alla risposta dell’altro”) di tipo cognitivo, emotivo e comportamentale (proseguendo l’esempio: “se si arrabbia ha ragione perché non valgo niente”, tristezza, evitamento della relazione) ed una sottostante immagine di sé (in questo caso, “non amabile”).

Nella patologia, gli Schemi tendono ad essere negativi e totalizzanti, netti, difficili da mettere in discussione e generano emozioni molto intense nel paziente.

Gli Schemi del paziente entrano in gioco in tutte le relazioni, anche in psicoterapia, e si incontrano, a volte si scontrano, con quelli del terapeuta, mettendo in scena dei Cicli Interpersonali Disfunzionali tra i due protagonisti della seduta, dove il terapeuta incarna l’“Altro” del paziente e viceversa.

Il paziente ha delle aspettative sul terapeuta, guidate dai propri schemi, che moduleranno i pensieri, le emozioni e i comportamenti in terapia. A sua volta anche nel terapeuta si attiveranno i propri schemi con tutti gli elementi, ma a differenza del paziente, il terapeuta ne è consapevole (o dovrebbe esserlo), ha imparato a conoscerli, non se ne fa turbare ma li osserva in seduta serenamente e con curiosità, per poi rifletterci a casa, o nelle proprie supervisioni, utilizzandoli come fonte di informazione e di cambiamento per sé e per il paziente.

Come lavorare sui Cicli Interpersonali: la Self Mirroring Therapy

Bello, molto bello, ma come si arriva a questa disciplina interiore? La tecnologia e la mia formazione e ricerca sulla Self Mirroring Therapy mi vengono in aiuto e, non senza timore, decido di puntare una webcam verso di me, oltre a quella rivolta abitualmente verso il paziente, così da avere un filmato della seduta completa in una sorta di “intervista doppia” in cui i Cicli Interpersonali Disfunzionali sono lì, nero su bianco, anzi pixel su pixel.

Non si tratta di un semplice, per quanto efficace, videofeedback. La Self Mirroring Therapy è una tecnica che si applica in seduta con il paziente, che viene filmato nelle varie fasi della terapia (video 1) e poi filmato nuovamente mentre osserva e commenta il primo video (video 2). (Vinai, Speciale, 2013)

Osservandosi nel video 1, il paziente riesce a riconoscere meglio le proprie emozioni e a guardarsi con accettazione ed empatia, perché non implica più l’uso delle capacità autoriflessive, che spesso sono carenti, ma il sistema dei neuroni specchio, che viene normalmente impiegato in modo automatico e pre-riflessivo per comprendere le emozioni altrui ed empatizzare.

Tutto questo avviene in relazione stretta con un terapeuta esperto in Self Mirroring Therapy, che crea un clima disteso e di accettazione, ha in mente un progetto di cura e degli obiettivi sulla base dei quali seleziona e propone gli spezzoni di filmato più adatti, modula le emozioni del paziente, che a volte reagisce all’immagine di sé con sorpresa e spaesamento (mai, però, nella nostra esperienza, con rabbia o aggressività), sottolinea i suoi insight e li rafforza (Vinai, Speciale, Alibrandi, 2016)

Consapevole dei limiti dati dall’essere contemporaneamente “terapeuta del paziente” e “terapeuta o supervisore di me stessa”, l’esperienza di applicare la Self Mirroring Therapy su di me, alla ricerca dei Cicli Interpersonali Disfunzonali, è illuminante.

Self Mirroring Therapy: un caso clinico

Scelgo di registrare una seduta con un paziente “facile”, con cui sono a mio agio, dopo aver avuto il sospetto che questa mia rilassatezza fosse eccessiva, segnale di un probabile Ciclo Interpersonale Disfunzionale. Identifico le mie remore ad accendere la telecamera: se vedrò dei miei comportamenti che non mi piaceranno, potrei sentirmi incapace, scoraggiarmi e perdere energia nelle sedute successive, in uno Schema che recita, più o meno, “vorrei essere apprezzata, l’altro è critico, mi sento inadeguata, rispondo con il perfezionismo, se questa strategia fallisce e scopro dei difetti…è un disastro!

Dopo pochi minuti però dimentico la telecamera e tutto prosegue con naturalezza. Alla fine della seduta, rifletto sulle emozioni che ho provato e non ne identifico altre al di là della mia serenità, a parte qualche flash emotivo diverso che sul momento non reputo rilevante. Decido poi di guardare gli spezzoni di video relativi ai momenti più salienti, selezionati con i criteri con cui scelgo solitamente quelli da mostrare al paziente, ponendo l’attenzione sulla mia parte di “intervista doppia”, la mia faccia, e di videoregistrarmi mentre mi guardo (Self Mirroring Therapy).

Si alternano emozioni di curiosità benevola e di stupore. Una scena su tutte: il paziente con ansia sociale mi racconta di essersi avvicinato al bar dove lavora la ragazza che gli piace con l’intenzione di parlarle, in quel momento sul mio viso compare un’espressione tesa. “E’ l’interesse di sapere com’è andata a finire” mi direi, se non avessi il video che testimonia, in modo inequivocabile ai miei occhi, che è proprio ansia. Se non bastasse, mentre mi racconta di non essere riuscito perché gli sono tornate le solite paure, eccomi in una micro-smorfia di disappunto, che diventa per un attimo irritazione.

Il mio Schema dice “se non ce l’ha fatta dopo tanto tempo passato a parlarne con te vuol dire sei proprio scarsa, probabilmente di questo paziente non hai capito niente!”. I miei discorsi sono invece quelli corretti, da manuale, tanto che scelgo di abbassare l’audio, perché di fronte alle espressioni emotive le parole non hanno una grande importanza. Ho confermato al paziente il suo Schema: “se ti mostri debole, l’altro ti rifiuta”, tant’è vero che subito dopo lui cambia argomento, e sul suo viso compare per un attimo un’espressione di tristezza.

Resta ora da guardare il video 2, quello in cui ho ripreso le mie reazioni all’osservazione del video 1. Mi appaio totalmente rapita da ciò che sto osservando. Mi vedo mentre commento a voce alta. Sono buffa mentre ragiono: sposto lo sguardo verso l’alto, mi mordicchio un dito e borbotto discorsi incomprensibili tra me e me che diventano un’affermazione in maiuscolo quando tiro le conclusioni. Nel video 2 mi approccio alla registrazione della seduta con interesse scientifico ed esprimo riflessioni che suscitano altre riflessioni in me osservatrice, servirebbe un video 3 in una “never ending story” in cui non si finisce mai di imparare!

Ciò che però lascia davvero il segno, perché non mi è familiare, è vedermi mentre mi guardo con un’espressione benevola, curiosa, intenerita, non critica. Nel video 2 il mio sorriso è molto più pronunciato mentre guardo me stessa piuttosto che quando osservo il paziente. I timori che avevo all’idea di rivolgere la webcam verso di me si sono rivelati infondati: l’altro – me stessa – non è critico né sprezzante, anche in presenza di errori evidenti, ma vicino, interessato ed affettuoso, in una relazione che smentisce lo Schema mentre valida il sé.


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