di Giancarlo Dimaggio
Articolo pubblicato sulla rubrica Lettura de Il Corriere della Sera
Entra nella mia stanza di psicoterapeuta un avvocato di quarant’anni, disperato. Intelligente, capace, ma non riesce più a lavorare. Soffre di attacchi di panico: si è fermato sulla tangenziale e da allora non guida, ha paura di svenire e perdere il controllo.
Per andare in ufficio prende il taxi, ai colleghi ha mentito: “Sono stanco di guidare”, è esausto. Un terapeuta cognitivista non fatica a curare il panico. Dopo due mesi riprende la macchina. Ma aveva un problema più complesso, quello che il manuale diagnostico, il DSM 5, chiama Disturbo Evitante di Personalità: è schiacciato da timore del giudizio, vergogna, l’idea di parlare in pubblico lo fa sudare. In terapia, nel corso di un anno, risolveremo anche quel problema. Torna a fare il suo lavoro, sereno, e la sua giornata si colora della dimenticata passione per fantascienza e fantasy. Discutiamo sul rapporto tra Darth Vader e Luke Skywalker, sul passato di Voldemort. Giochiamo. Ha riconquistato libertà dalla sofferenza e capacità di scelta. Sono contento.
Ma se ascoltassi Umberto Galimberti mi vedrei con altri occhi. La sua posizione nei confronti della psicoterapia, cognitiva in particolare, è spietata. Scopro di essere un disciplinato figlio del capitalismo, asservito alla techne, la tecnica. Finalmente mi rendo conto che non curo i pazienti, ma li normalizzo, ne offusco il vero io, li rendo automi, incapaci di voltarsi a Delfi, apatici ingranaggi della società produttiva. Tanti Charlot alla catena di montaggio in Tempi Moderni, mucche al pascolo.
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